Spesso, anche nel corso di questa pandemia da Covid-19, abbiamo assistito ad incertezze del legislatore dei singoli Stati membri dell’Unione nell’individuare modalità di intervento su temi e diritti già disciplinati dal diritto europeo. Soprattutto nel campo della protezione dei dati personali ancora ci si meraviglia che l’iter di formazione delle norme di diritto interno che abbiano un impatto sulla protezione dei dati personali – proposte di legge, schemi di decreti legge o decreti legislativi, schemi di regolamento – debba necessariamente prevedere il parere preventivo dell’autorità di supervisione nazionale (“ASN”).
Parere dell’Autorità
Il parere dell’Autorità di supervisione non è solo un parere necessitato dalla competenza tecnica della stessa. Il GDPR, innanzitutto, attribuisce all’ASN il compito di sorvegliare e assicurare l’applicazione del GDPR [art. 57.1, a)].
Nello svolgimento di questo compito primario, il regolamento prevede che l’ASN «fornisce consulenza, a norma del diritto degli Stati membri, al parlamento nazionale, al governo e ad altri organismi e istituzioni in merito alle misure legislative e amministrative relative alla protezione dei diritti e delle libertà delle persone fisiche con riguardo al trattamento» [art. 57.1, c)].
I compiti citati, peraltro, trovano supporto nell’attribuzione all’ASN di uno specifico potere di «rilasciare, di propria iniziativa o su richiesta, pareri destinati al parlamento nazionale, al governo dello Stato membro, oppure, conformemente al diritto degli Stati membri, ad altri organismi e istituzioni e al pubblico su questioni riguardanti la protezione dei dati personali» [art. 58.3, b), GDPR].
In conclusione, l’attività di consulenza e consultiva dell’ASN ha lo scopo di consentire alla stessa di «assicurare l’applicazione del regolamento» e far sì che le istituzioni parlamentari ed esecutive dello Stato membro non introducano norme che potrebbero contraddire il GDPR.
Primato del diritto europeo
Il legislatore nazionale è sovrano riguardo alla propria capacità nomofilattica, per cui ci si potrebbe chiedere quale sia il fondamento giuridico che giustifichi una simile prevalenza della norma del diritto unionale rispetto a quella di diritto interno dello Stato membro. La risposta si trova nei trattati di adesione all’Unione.
Nelle materie che i trattati dell’Unione ascrivono alla competenza del diritto UE, come nel caso della disciplina sulla protezione dei dati personali, quest’ultimo prevale sui diritti nazionali, per cui «non possono essere ammesse norme di diritto nazionale, quand’anche di rango costituzionale, che pregiudicano l’unità e l’efficacia di tale diritto (v., in tal senso, CGUE sentenze del 26 febbraio 2013, Melloni, C‑399/11, EU:C:2013:107, punto 59, e del 29 luglio 2019, Pelham e a., C‑476/17, EU:C:2019:624, punto 78).» (CGUE, C-439/19, punto 135).
Tanto vale anche per i diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (“Carta di Nizza”), in quanto «(l)a Corte ha più volte dichiarato che i diritti fondamentali ora sanciti dalla Carta, di cui la Corte garantisce il rispetto, si ispirano alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e alle indicazioni fornite dagli atti internazionali relativi alla tutela dei diritti dell’uomo cui gli Stati membri hanno cooperato o aderito (v., in tal senso, sentenza del 27 giugno 2006, Parlamento/Consiglio, C‑540/03, EU:C:2006:429, punto 35 e giurisprudenza ivi citata).» (CGUE, C-467/17, punto 61).
Atti dell’Unione
Come noto, le norme vincolanti del diritto UE si distinguono in regolamenti (come il GDPR) direttive (come l’abrogata direttiva 95/46/CE e l’attuale direttiva (UE) 2016/680 per i trattamenti a fini di polizia) e decisioni: i primi sono direttamente applicabili, hanno valore di legge per gli Stati membri, i quali hanno l’obbligo di farli rispettare all’interno dei propri ordinamenti, senza operarvi modifiche; le seconde vincolano gli Stati membri cui sono rivolte, i quali sono tenuti ad attuarne i principi – cioè ad assicurarne il risultato da raggiungere – emanando a loro volta norme interne, attuative degli stessi. Quindi, le direttive lasciano margini di flessibilità agli Stati membri circa i metodi e le forme per conformarsi ai principi e alle regole in esse declamati. Regolamenti e direttive sono atti legislativi.
La decisione, può essere un atto legislativo o meno, è obbligatoria e se si rivolge a destinatari individuati (soggetti – come quelle di condanna per abuso di posizione dominante – o Stati membri), vincola solo questi ultimi.
Si è soliti dire che regolamenti, direttive e decisioni rientrano nel diritto secondario dell’UE, in quanto il diritto primario è rappresentato dai trattati istitutivi e di funzionamento (oltre al trattato Euratom). Il diritto primario comprende anche la Carta di Nizza ed in principi generali del diritto UE stabiliti dalla CGUE.
Direttive UE
Nel caso di direttive unionali, «(g)li Stati membri rimangono invece liberi, come avviene per ciascuna direttiva conformemente all’articolo 288, terzo comma, TFUE, per quanto riguarda la scelta dei mezzi che ritengono opportuno mettere in atto al fine di conformarsi all’obbligo di cui trattasi. Nell’ambito di tale scelta, essi possono beninteso lasciarsi guidare, tra l’altro, dalle considerazioni relative ai loro principi costituzionali e dai diritti fondamentali, purché non compromettano l’effetto utile del diritto dell’Unione.» (CGUE conclusioni dell’avvocato generale, EU:C:2019:624, punto 78).
In conclusione, nonostante le direttive siano atti di diritto UE “a doppia fase” (1. direttiva UE, 2. norma nazionale di attuazione) con margini di flessibilità per gli Stati membri, anch’esse godono di prevalenza rispetto al diritto interno, in quanto quest’ultimo non può contraddirne i principi ispiratori.
Eccezioni o deroghe ai diritti unionali
Analogamente, in caso di eccezioni o deroghe ai diritti previsti in norme vincolanti di diritto europeo, queste vanno intese come esaustive e non ammettono interpretazione analogica o estensiva, come nel caso delle deroghe o eccezioni previste nel GDPR.
Nel caso delle direttive UE, «tali meccanismi devono comunque trovare concretizzazione in misure nazionali di recepimento di detta direttiva nonché nell’applicazione di queste ultime da parte delle autorità nazionali (v., in tal senso, sentenza del 29 gennaio 2008, Promusicae, C‑275/06» (CGUE, C-476/17, punto 60). Poichè lo scopo delle direttive è quello di realizzare una disciplina armonizzata all’interno della UE sul tema in oggetto, «l’esigenza di coerenza nell’attuazione di tali eccezioni e limitazioni non potrebbe essere garantita se gli Stati membri fossero liberi di prevedere eccezioni e limitazioni del genere al di fuori di quelle espressamente previste dalla direttiva» (CGUE, C-467-17, punto 64).
In conclusione, traendo dalla decisione C-467-17, relativa al diritto d’autore, la regola costituente principio generale di diritto UE, deve sostenersi che «uno Stato membro non può prevedere, nel proprio diritto nazionale, un’eccezione o una limitazione al diritto» sancito dalla norma vincolante di diritto UE, diversa da quella esplicitata in tale norma UE (CGUE, C-467/17, punto 65).
Competenza esclusiva della CGUE sull’interpretazione del diritto UE
La CGUE è l’unico giudice competente a interpretare in via autentica il diritto europeo. Quando una questione pendente dinanzi a un giudice nazionale riguarda l’applicazione di una norma di diritto europeo, questi è tenuto a richiedere al proprio giudice delle leggi di provvedere ad un rinvio pregiudiziale alla CGUE dei quesiti per l’interpretazione del diritto UE. Come ribadito, da ultimo, dalla stessa CGUE nella causa C-439/19 Lettonia, «l’interpretazione del diritto dell’Unione fornita in via pregiudiziale [dalla CGUE] ha efficacia erga omnes ed ex tunc», cioè ad essa devono attenersi persino i giudici della corte costituzionale di uno Stato membro (come nel caso citato) ed ha effetto retroattivo.
Competenza esclusiva della CGUE sull’efficacia temporale delle decisioni
In via analoga alla competenza esclusiva a decidere sull’interpretazione, la CGUE vanta l’esclusiva nella determinazione dell’efficacia temporale delle proprie decisioni. In linea di principio, come si precisa di seguito, le decisioni della Corte hanno effetto retroattivo ma la stessa Corte è l’unica a poter determinare gli effetti nel tempo di una sua decisione valutando se, in applicazione del principio della certezza del diritto inerente all’ordinamento giuridico dell’Unione, i conseguenti effetti giuridici siano eccezionalmente solo per il futuro (“ex nunc”) in deroga alla regola generale. La limitazione degli «effetti nel tempo dell’interpretazione richiesta alla Corte e da quest’ultima fornita in merito ad una disposizione di diritto dell’Unione (…) può essere ammessa unicamente nella sentenza stessa che statuisce sull’interpretazione richiesta», così garantendo «la parità di trattamento degli Stati membri e degli altri soggetti dell’ordinamento nei confronti di tale diritto e rispetta, allo stesso modo, gli obblighi derivanti dal principio della certezza del diritto (sentenza del 6 marzo 2007, Meilicke, C‑292/04, EU:C:2007:132, punti 36 e 37; v., in tal senso, sentenze del 23 ottobre 2012, Nelson e a., C‑581/10 e C‑629/10, EU:C:2012:657, punto 91, e del 7 novembre 2018, O’Brien, C‑432/17, EU:C:2018:879, punto 34)» (C-439/19, punto 133).
Su questa falsariga, la CGUE ha sancito che il principio del primato del diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che esso osta a che il giudice di uno Stato membro, ancorchè di livello costituzionale, in applicazione del principio della certezza del diritto, decida sugli effetti giuridico-temporali di una decisione della Corte pronunciata su rinvio pregiudiziale (CGUE, C-439/19, n. 4) del dispositivo).
Efficacia retroattiva delle decisioni della CGUE
Sulla base delle competenze attribuite dall’articolo 267 TFUE, l’interpretazione che la CGUE fornisce delle norme del diritto dell’Unione, «chiarisce e precisa il significato e la portata delle norme stesse, nel senso in cui devono o avrebbero dovuto essere intese e applicate sin dal momento della loro entrata in vigore.», cioè, con efficacia retroattiva (C-439/19, punto 132).
Limiti all’efficacia retroattiva delle decisioni della CGUE
In via eccezionale, come anticipato, al fine di preservare i rapporti giuridici costituiti in buona fede e che andrebbero compromessi a seguito della decisione della CGUE, questa può essere indotta a limitarne gli effetti temporali solo per il futuro (“ex nunc”). Questa eventualità deve soddisfare due condizioni:
- la limitazione degli effetti temporali della decisione della Corte (cioè, “ex nunc” anzichè “ex tunc”) può essere determinata solo da essa stessa (v., in tal senso, sentenza dell’8 settembre 2010, Winner Wetten, C‑409/06, EU:C:2010:503, punti 61 e 67)
- sussistenza di entrambi i criteri essenziali della buona fede degli ambienti interessati nella costituzione di rapporti giuridici risultati poi in violazione della norma di diritto UE e il rischio di gravi inconvenienti (C-439/19, punto 132 che richiama le sentenze del 6 marzo 2007, Meilicke, C‑292/04, EU:C:2007:132, punti 34 e 35; del 22 gennaio 2015, Balazs, C‑401/13 e C‑432/13, EU:C:2015:26, punti 49 e 50, e del 29 settembre 2015, Gmina Wrocław, C‑276/14, EU:C:2015:635, punti 44 e 45).